Questi complessi e laceranti anni venti del duemila hanno marcato definitivamente la decadenza delle ideologie del Novecento portando ad affermarsi nuovi impianti ideologici figli dell’unico pensiero dominante: il consumismo capitalista occidentale. Oggi non si rintracciano più, nei dibattiti pubblici quotidiani, le etichette più conosciute e più usurate: comunista, socialista, popolare e post-fascista. Questa stagione della vita repubblicana ci ha fatto conoscere la deriva delle appartenenze vuote. Un esempio su tutti? Gli atlantisti.

Forse la mia, la nostra generazione (quella dei trentenni) ha sentito vagamente l’odore della cosiddetta “obbedienza atlantica” nei colossal americani e niente più: la raffigurazione dei russi “brutti, sporchi e cattivi” sconfitti dagli americani belli, forti e giusti. E noi europei? I vassalli o, peggio ancora, vassallini ai margini della narrazione. La maledetta guerra in Ucraina ha riproposto questa schema binario e ha riportato la classe dirigente europea e nostrana a dividersi rispetto al tasso di fedeltà agli Stati Uniti d’America.

Se il termine “fede” non l’ho mai apprezzato (e quindi fatto mio) per la dimensione politica e civile ora molti leader di partito si forgiano pubblicamente della loro fede atlantista. Quasi quasi arrivano a definire l’identità della loro comunità non attraverso una minuziosa elencazione di ideali figli delle radici “militanti” ma la capacità di essere riconosciuti come leali interlocutori dall’amministrazione americana di turno.

La sinistra ha abbandonato il servilismo sovietico per questa cosiddetta fede atlantista (il percorso cominciò da lontano con la prima scelta di rottura sugli euromissili da parte di Enrico Berlinguer) e recentemente (forse per esigenze di credibilità governativa nel cosiddetto mondo occidentale) anche la destra ha sfumato la narrazione identitaria nazionalista e patriottica (di sostanza, non di facciata) per sposare l’obbedienza d’oltreoceano.

In Italia se sei atlantista sei nel giusto e non ricevi critiche, se muovi riserve sulla politica estera occidentale e statunitense vieni emarginato al pari di un disobbediente qualunque. In questo senso la guerra in corso sul territorio ucraino è stato uno spartiacque decisivo.

Giorgia Meloni ha mostrato anche qui la linea comunicativa adottata sin dal periodo di opposizione parlamentare al governo Draghi: sulla politica estera ed economica mostrare il sorriso nuovo della continuità rispetto alle direttrici europee ed americane. Nessuna volontà di smarcarsi, nemmeno nella forma se non nella sostanza. Una patriota, come lei s autodefinisce, dovrebbe sapere che siamo l’Italia di Sigonella, di Pratica di mare e, prima ancora, della dottrina “Mattei” per l’Africa.

La nascita del primo governo di destra italiano apre un interrogativo decisivo per tutti: essere atlantisti o essere italiani? Scegliere di continuare nel solco della politica estera della cosiddetta “terza via” italiana o proseguire nella svolta draghiana dell’obbedienza filoatlantista? Noi abbiamo scelto di essere patrioti, dissidenti rispetto alla dottrina atlantista e quindi “mediterranei”, Giorgia (per ora) ha optato per l’Atlantico lasciando il mediterraneo (ancora una volta) abbandonato a se stesso.

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