Sono noti i problemi del sistema carcerario italiano, dal sovraffollamento, alla insufficienza del personale di sorveglianza, alla cronica mancanza di fondi per il miglioramento complessivo di riabilitazione, fino al grave fenomeno delle recidive, per non parlare dell’incapacità del sistema penale di immaginare pene alternative alla detenzione.
Ma tra le tante criticità irrisolte, particolarmente sconfortante appare la situazione dell’edilizia carceraria … Parlo di edilizia e non di architettura, giacché quest’ultima appare, è il caso di dire, “latitante”, tanto che la parola “costruzione” in ambito carcerario può essere assunta come sinonimo di “costrizione”.
Di fatto, a causa dei disagi e delle mortificazioni che finisce per provocare, il luogo della pena diventa anche parte essenziale della pena stessa.
Paradossalmente questa edilizia “costrittiva” estende i suoi effetti, oltre che alle persone ristrette per motivi di giustizia, a tutti coloro che vivono l’istituzione totale del carcere (polizia penitenziaria, personale amministrativo e visitatori), obbligati a sopportare una condizione per alcuni versi analoga a quella dei reclusi.
Cesare Beccaria, padre fondatore del diritto penale, quasi due secoli e mezzo fa sosteneva che “il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile”. Concetto, del resto, ribadito dall’art. 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tuttavia quando i luoghi della detenzione diventano essi stessi, nella loro realtà e struttura fisica, luoghi di tormento e di afflizione, il fine precauzionale e riabilitativo della pena viene di fatto svilito e contraddetto.
Le esigenze di una persona reclusa non possono essere ridotte solo a fattori di igiene e di sicurezza, e nemmeno nell’assicurare (quando va bene!) gli spazi minimi per la riservatezza della persona, per le pratiche trattamentali e le attività socializzanti …
Una buona architettura, attenta ai bisogni psico-fisici della persona, è un diritto da assicurare a ogni livello, anche nel caso dei luoghi della pena.
Architettura e Carcere
Quali sono i valori architettonici che possono rendere più vivibili i nostri istituti penitenziari? L’antica lezione e sempre attuale di Vitruvio nel “De Architectura”, fondamento teorico dell’architettura occidentale, individua tre essenziali fattori: la firmitas (la solidità statica e materiale), lautilitas (l’utilità funzionale al benessere della persona e della collettività) e la venustas (cioè la proprietà estetica o bellezza), quest’ultima ordinariamente garantita dall’armonia e gradevolezza delle forme delle proporzioni e dei colori.
Tali valori dovrebbero essere garantiti a maggior ragione nelle strutture dove più è messa a rischio la dignità della persona.
I quasi 200 istituti penitenziari attivi oggi in Italia sono invece caratterizzati in gran parte da schemi costruttivi rigidi e ripetitivi che non lasciano immaginare accettabili condizioni di vivibilità al loro interno. Di solito essi appaiono come fortezze arroccate, introverse e impermeabili, sostanzialmente e fisicamente estranei alla città, anche quando fossero stati ormai inglobati nel tessuto urbano.
Le principali tipologie finora in uso appaiono superate, non più rispondenti a modelli di detenzione, non conformi all’evoluzione del diritto e del sentire comune, e soprattutto non ispirate a quella bellezza evocata da Dostoevskij che “salverà il mondo”, perché capace di accendere nel cuore dell’uomo, per misteriosa imitazione, tutto ciò che è bello, buono e virtuoso.
Nella cruda realtà italiana circa un quarto delle carceri deriva dal riuso antiche architetture con impianti “a corte” (soprattutto ex conventi, castelli, palazzi signorili) nate non per la specifica funzione carceraria, successivamente adattate alla meno peggio.
Un altro 10%, risalente soprattutto al XVIII secolo, è formata da edifici a impianto “radiale” con disposizione dei padiglioni detentivi intorno ad uno spazio centrale di controllo, sviluppando in tal modo l’oppressivo e ossessivo modello di controllo del panopticon.
Una ulteriore tipologia, che rappresenta circa il 15% degli istituti, è quello detto “a palo telegrafico” che si è diffuso, con successive varianti, dopo la riforma carceraria del 1932; esso si distingue per la presenza di un asse centrale di raccordo tra i vari padiglioni trasversali, formati da lunghi corridoi su cui si affacciano celle anonime e spersonalizzanti.
Dall’evoluzione di quest’ultima tipologia sono scaturiti altri modelli (che oggi sono circa un terzo del totale) definiti a “corpi edilizi differenziati” i quali presentano una più organica articolazione delle funzioni da assicurare, secondo l’uso e le attività da svolgere all’interno del carcere.
In definitiva, salvo pochi tentativi di coniugare l’arte del costruire con il progredire dei sistemi di trattamento carcerario, non si riconoscono strutture che rivestano un particolare valore dal punto di vista architettonico.
La scontata imponenza e la rigida solidità (firmitas) delle strutture e delle murature esterne delle nostre carceri, allude tuttora a un’idea di isolamento e di repressione. Con riguardo al tema della distribuzione delle funzioni (utilitas) qualche passo avanti si può riconoscere solo negli istituti più recenti, dove si è tentata la diversificazione spaziale delle funzioni … ma per il resto siamo di fronte a costruzioni generalmente senza pretesa di qualità, privi di quella significativa ricerca architettonica (venustas) capace di suggerire ammirazione e di ispirare comportamenti virtuosi.
Una spiegazione di tale situazione risiede forse nel fatto che la dimensione della qualità, implicita nella progettazione architettonica, è ancora ritenuta superflua o secondaria per la funzione detentiva, perpetuando peraltro l’immagine del carcere come di un luogo chiuso, ostile e respingente.
Carcere e Città
Anche sul versante urbanistico (la scienza che sovrintende ad un ordinato assetto del territorio e all’attività edificatoria) la situazione appare problematica. Un’errata concezione di tale disciplina ha finito con il consegnare i luoghi della pena a una progressiva estraneazione e segregazione dal contesto civile, determinando il loro confinamento e accentuandone la marginalizzazione.
Cito a mo’ di esempio la relazione illustrativa redatta a fine anni ’60 del Piano Regolatore Generale della mia città, Potenza (pur se la situazione descritta è purtroppo riconoscibile in moltissime altre realtà urbane). Essa vorrebbe giustificare la scelta di evitare l’espansione edilizia nella zona a sud-est dell’abitato, a causa della “presenza di attrezzature oggettivamente respingenti della residenza”. La relazione individuava queste realtà “respingenti” nel carcere di località Betlemme (cioè il luogo della pena), nel Cimitero comunale di San Rocco (il luogo della morte), nell’Ospedale civile San Carlo (il luogo della sofferenza), e nell’Ospedale ortofrenico (il luogo della follia).
Credo siano da ritenere come le più nefaste le scelte che arrivano a sostenere l’allontanamento e la separazione della città da quei luoghi che richiamano le dimensioni dolenti e umanissime della sofferenza.
Ogni scelta di segregazione spaziale, infatti, altro non è se non l’inizio e il segnale dell’incapacità di innovazione sociale e della vera incisività delle politiche pubbliche.
Conclusione
Da questo sommario excursus non si può omettere, per amore di verità, la ricerca feconda di architetti e urbanisti che, al contrario, operano per il superamento delle visioni più anguste e retrive, sostenendo la necessità di ricercare un’organizzazione delle forme, degli spazi e delle soluzioni interne degli istituti di pena più vivibile e umana, e perseguendo allo stesso tempo un loro più stretto e organico rapporto con il contesto urbano.
Tra i pochi, grandi professionisti che hanno fatto da battistrada in questo settore, la lezione forse più lungimirante, e la più cristianamente ispirata, è stata quella dell’arch. Giovanni Michelucci (1891-1990), il quale ebbe a scrivere:
“Le mura della città erano fatte per chiudere, ma anche per aprire, mentre quelle del carcere servono solo per
segregare e respingere … Per questo bisogna abbatterle in qualche modo, almeno metaforicamente, se non
fisicamente”.
Sono parole che alludono a una questione che non è solo formale o estetica. Parole che tentano di spostare l’attenzione al cuore stesso del problema dell’edilizia carceraria: quello di costruire, come dice Michelucci, “spazi che diventino luoghi, spazi non chiusi in sé stessi, non rivolti solo al loro micro-mondo interno”. Parole che sono anche un monito perché anche la città cominci ad abbattere le sue mura e cominci a dialogare con le strutture carcerarie.
Se non si ripensa a come ristrutturare architettonicamente e socialmente il carcere, e a come rieducare socialmente la città che lo ricomprende, sarà impossibile puntare sull’aspetto rieducativo della pena, oltre che su quello punitivo.